Che cos’è il dolore?
Di solito quando si parla di dolore si pensa a qualcosa di negativo, senza tuttavia sapere che se non provassimo dolore, la nostra vita sarebbe costantemente messa in pericolo.
La IASP, che è un’associazione internazionale che si occupa dello studio dei fenomeni dolorosi, si riferisce al dolore come a “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata ad un danno tissutale reale o potenziale” e questo pone la luce su un punto estremamente importante: il dolore non è una cosa oggettiva, ma un’esperienza soggettiva che viene ad essere influenzata da innumerevoli fattori anche di tipo psicologico ed emozionale.
Uno stimolo che proviene dalla periferia del nostro corpo, come ad esempio può essere la puntura di uno spillo, arriva al nostro cervello, il sistema nervoso centrale, che lo processa insieme ad altre informazioni provenienti da diverse aree dell’encefalo e in ultima analisi ci dice se è o meno uno stimolo doloroso e ne riduce o amplifica l’intensità. In altre parole, sulla pelle, nei tendini, nelle articolazioni, ecc. non abbiamo recettori del dolore ma abbiamo recettori termici, meccanici/pressori e chimici che inviano le informazioni al cervello che elabora infine la risposta dolorosa.
Il dolore, come precisa la definizione della IASP, non deriva tuttavia solo da un danno reale ma anche da una situazione di potenziale pericolo. Le credenze, le aspettative di una persona possono influenzare il cervello a tal punto da rendere un’esperienza innocua potenzialmente dannosa fino a portare il nostro sistema nervoso centrale a generare vere e proprie risposte dolorose. Facciamo un esempio: tante persone con il mal di schiena non piegano la loro schiena in avanti per timore di poter creare un danno al tessuto e questo influenza il cervello che percependo un potenziale pericolo invia informazioni dolorose che fanno sì che la persona cambi il modo di muoversi. In realtà di recente è stato fatto uno studio che dimostra tramite strumenti altamente tecnologici che sollevare un peso con un movimento di squat flettendo le ginocchia o sollevarlo piegando la schiena, comporta una differenza nelle forze applicate sulla colonna praticamente trascurabile! Se le pubblicità, i media, il contesto in cui viviamo non ci avessero instaurato certe convinzioni, probabilmente sarebbe diverso il modo di muoversi di chi ha problematiche alla schiena, non percependo più il cervello il rischio “potenziale” citato poco fa.
Il dolore è quindi il modo che il nostro centro di comando ha per proteggerci e in quanto tale dovrebbe ridursi per poi scomparire quando viene meno questa necessità, ci sono tuttavia casi in cui esso si protrae nel tempo fino a cronicizzare, perdendo la sua reale funzione di protezione.
Ma per quale motivo il dolore tende a cronicizzare?
Mentre un tempo si pensava che il problema fosse solo di origine strutturale, ovvero causato da un ritardo nella guarigione del tessuto, sono ormai tanti gli studi che dimostrano che i fattori psicosociali giocano un ruolo fondamentale nella cronicizzazione del dolore. Tra di essi abbiamo l’ansia, la depressione, fattori lavorativi o famigliari (rapporto con i colleghi, rapporto con altri membri della famiglia), qualità del sonno, memoria di eventi dolorosi passati, credenze errate, ecc.
Nel tessuto lesionato normalmente si instaurano una serie di meccanismi atti a proteggere la zona, e tra di questi abbiamo l’iperalgesia e l’ipervigilanza. L’iperalgesia è un’amplificazione del segnale sul tessuto leso che fa si che uno stimolo normalmente poco doloroso venga percepito come molto doloroso e in questo modo staremo attenti a non caricare troppo una caviglia dopo una distorsione o a non applicare troppa pressione ad un muscolo dopo una contusione. Mentre l’ipervigilanza fa in modo che la soglia di attenzione verso l’area con la lesione aumenti in modo da averla sotto controllo per non creare ulteriori danni.
Succede che nel caso in cui siano presenti i fattori psicosociali elencati prima, queste due condizioni che si instaurano nel tessuto per proteggerlo vengano ad essere mantenute anche quando il tessuto è ormai guarito, per cui la persona continuerà ad avere dolore anche a fronte di stimoli che normalmente non dovrebbero causarlo (ad es. sfioramento della cute) e a prestare fin troppa attenzione fino a non muovere una parte del corpo (non piegare la colonna per timore di fare un danno).
Cosa è necessario fare in questi casi affinché questa condizione di dolore cronico non si protragga nel tempo?
Quando le persone soffrono di questa patologia, per paura di peggiorare la situazione o di creare un danno al tessuto, non fanno altro che ridurre progressivamente la loro attività e questo li porta non solo ad indebolire sempre più le strutture del proprio corpo, ma anche ad avere paura che un movimento, anche banale, possa riacutizzare il dolore (ricordiamo che anche la paura di un movimento può innescare nel nostro sistema nervoso centrale una risposta dolorosa!).
Questa situazione, qualora protratta nel tempo, genera un circolo vizioso e fa si che questi soggetti provino dolore anche nei semplici movimenti della vita quotidiana.
Il compito del fisioterapista è in primis educare il paziente rispetto a questi meccanismi responsabili della persistenza della sintomatologia e spiegargli che la ripresa dell’attività fisica è fondamentale anche se all’inizio potrebbe portare a riacutizzazioni del quadro. È importante che la persona capisca che la risposta in termini di dolore che avrà in conseguenza alla ripresa delle attività sarà sproporzionata rispetto al danno tissutale reale.
È quindi necessario prima di tutto che questa ripresa venga effettuata con estrema gradualità partendo prima da attività semplici e funzionali alla vita quotidiana per poi arrivare in un’ultima analisi alla ripresa dell’attività sportiva.
La presa in carico di un soggetto con dolore cronico è importante che avvenga a 360 gradi in quanto sono molteplici i fattori che possono portare alla cronicizzazione del quadro doloroso; affiancare alla persona i giusti professionisti farà in modo che la gestione avvenga in modo ottimale e potrà migliorare la qualità della vita dei nostri pazienti.